Marcello Zanni: "La Romagna dei vini? Ancora troppo timida rispetto alla concorrenza"

Con Marcello Zanni - nel Riminese ha svolto incarichi importanti - siamo amici da tanti anni. È uno di quelli che di vino ne mastica parecchio. Pertanto, i suoi scritti possono contribuire a conoscere meglio il mondo dell'enologia locale e regionale. Ha accettato volentieri l'invito a raccontare un po' la sua idea a proposito di Romagna. Buona lettura.

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di Marcello Zanni - La Romagna, come territorio di produzione vinicola, è approdata tardi agli onori della cronaca nazionale e (molto) timidamente a quella internazionale.


Eppure la sua storia indurrebbe a pensare, viste le potenzialità, il contrario.


La coltivazione della vite sul territorio romagnolo ha radici antiche, anzi antichissime, ma malgrado siano presenti da molti anni sul territorio organismi atti a tutelare il buon nome e la qualità dei vini regionali - pensiamo ad esempio al Tribunato Vini di Romagna un organismo sorto per volontà di Alteo Dolcini volto alla tutela e alla valorizzazione dei vini romagnoli in primis quel Sangiovese la cui paternità è aspramente contesa con i vicini toscani - l’approdo alla consacrazione di alta qualità dei vini romagnoli stenta a decollare. Sono molti gli aspetti da valutare per capire come si è giunti a questa situazione. La prima è sicuramente di natura culturale. 


- Un grappolo di Verucchiese - 

Mentre in Toscana producevano e facevano conoscere al mondo intero la bontà e la potenzialità del Sangiovese, in Romagna per troppi anni nel passato si è considerato il Sangiovese come un vitigno atto a produrre vinelli da consumare in annata e quindi di pronta beva e non adatti a produrre etichette importanti a lunga conservazione.


Le ragioni sono molteplici e spaziano nella cultura del vino in generale, dettata soprattutto dalla diversa composizione territoriale. Mentre in Toscana già dal Settecento era formato dai grandi possedimenti delle casate nobiliari - esse applicavano al vino principi economici derivati dalla conoscenza dei mercati e volti allo sviluppo di migliorie in campo enologico riuscendo a pianificare la produzione e a dare un'impronta di stampo industriale che consentiva loro di organizzare, progettare e orientare la produzione - in Romagna, al contrario, erano poche o pochissime le grandi proprietà. Quindi, con un territorio frammentato in piccoli poderi di pochi ettari vitati non si poteva aggredire la concorrenza: mancavano i numeri addatti a poterlo fare.


Eppure la Romagna è sicuramente fin dai tempi remoti una regione che ha conosciuto momenti di grande considerazione e notorietà. Non solo con il suo vitigno principe, quel  Sangiovese che solo in Romagna viene chiamato quale il vitigno di appartenenza! 


Non a caso, la Malvasia, la Vernaccina riminese la Ribola (Rebola) fra i vitigni a bacca bianca, hanno conosciuto vasta diffusione nel secolo scorso. Le cronache sono piene di documenti che attestano come i vini delle nostre colline già nel 1500 venissero esportati nientemeno che in Veneto.


A Rimini rimane traccia nei pressi del vecchio ospedale di un locale, ora ristorante, chiamato “il Canevone"


Ora la Canèva o il Canevòn erano luoghi che indicavano  i depositi di vino dove vi era anche la mescita. Il mistero di questa presenza si deve al fatto che anticamente il fiume Marecchia, e quindi il porto prima che il Battarra vi ponesse mano costruendo il deviatore, scorreva proprio a fianco del vecchio ospedale. 


Come non dire che verso la fine del quattrocento la Repubblica veneta venne in possesso, tramite intrighi con lo stato Vaticano, di Verucchio, terra dalla quale provenivano massimamente i vini e l’olio di cui la stessa si approvvigionava?


E proprio Verucchio è la patria di un vitigno autoctono dato per perduto di cui rimaneva traccia solo in alcuni documenti e nei racconti da osteria degli anziani del luogo: ”E Vrucèis”, il Verucchiese. Presenza sul territorio attestata fin dalla preistoria.


Secondo il professor Nigro della Facoltà di Agraria di Bologna il vitigno fu portato in Verucchio dalla cosiddetta mezzaluna fertile della Mesopotamia grazie a imbarcazioni che approdavano vicino alla foce del fiume Po. 


Ed essendo la civiltà Villanoviana l’unica  sul versante Adriatico qui avvenivano gli scambi commerciali. Ai navigatori orientali interessava soprattutto l’ambra, considerata una sorta di panacea contro tutti i mali. E in cambio davano barbatelle di vite. Tale vitigno è rimasto sul territorio per moltissimo tempo ancora. Conobbe poi una sorta di disaffezione ai primi del secolo scorso in quanto ritenuto piuttosto cagionevole alla botrix, la muffa che nelle stagioni piovose aggredisce i grappoli di uva. 


Risorto, sia pure in quantità limitate, dall’oblio grazie alla tenacia di un produttore locale e all’opera della Facoltà di Agraria che ne conservava  alcune piante nella zona di Tebano, il vitigno, dopo aver superato le tappe previste per legge, ha fornito un vino dalle caratteristiche inaspettate e per certi versi sorprendenti. 


Pur etichettato scientificamente “Sangiovese Verucchiese” ha  poco o nulla del Sangiovese che conosciamo al giorno d’oggi. Il grappolo si presenta oblungo e spargolo con le bucce che assumono in maturazione un colore grigio nero. Raramente, anche nelle migliori annate, supera i dodici gradi. 


Presenta al palato un bouquet floreale intenso e tannini vellutati che scendono in gola con passo felpato ma pieno. Ottima la mineralità. Un vino antichissimo ma per sua stessa natura al contempo modernissimo.


Un vino che si sposa alla perfezione con il pesce azzurro e i primi piatti della tradizione gastronomica locale. In estate è possibile consumarlo fresco: il Verucchiese mantiene intatte le sue prerogative di vino fragrante e sapido. Un dono giunto dalla preistoria e che andrebbe maggiormente valutato e considerato.


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